Un morbo terribile e temibile come la peste sta affliggendo ormai inesorabilmente una categoria professionale da sempre dimenticata e relegata nel più remoto angolo della trafila editoriale, e non solo: i traduttori. Nessuna tumefazione o segno visibile sulla superficie, ed è forse questo il dettaglio che più preoccupa. I traduttori sono stati attaccati dal feroce e letale virus di Google Translate, tanto fulminante quanto apparentemente invisibile.
Affronta l’argomento Stefano Bartezzaghi, linguista “figlio d’arte” che, su Repubblica del 16 gennaio, torna come d’abitudine sul tema del maltrattamento del linguaggio, delle inesattezze accumulate che creano nuove, erratissime, regole fasulle, della scarsa attenzione del lettore e del parlante contemporaneo. Problemi recentemente riassunti e spiegati in “Come dire. Galateo della comunicazione” (Mondadori, 2011), volume in cui il “re del gioco di parole” sviscera gli acciacchi e le insidie di quella che è la vera dominatrice del mondo moderno, troppo spesso invisibile a molti: la comunicazione. La ghiotta occasione per tornare a parlare di lingua, sistemi di comunicazione e umanità è fornita dall’articolo di Angelo Arquaro attiguo a quello di Bartezzaghi (anch’esso sull’inserto di Repubblica R2, dello stesso giorno), che presenta e racconta la storia di Mister Translate.
Brevemente: il genio informatico Ashish Venugopal, indiano, 33 anni, uno dei principali implementatori del sistema Google Translate, ha annunciato l’ultima frontiera dei suoi progetti, l’applicazione che darà voce alle traduzioni usatissime ogni giorno in tutto il mondo per capire e farsi capire chi non parla la propria lingua. Di per sé questo passo implica poche riflessioni: è sufficiente un’applicazione vocale come quelle utilizzate in alcuni software di conversione testo/voce per passare dal testo scritto di una traduzione di google, al testo parlato. Non voce, sottolineiamolo bene: testo parlato. Il passo, dicevamo, è in questo senso solamente “tecnico”: una voce tradurrà ciò che Google ha già tradotto. Lo snodo su cui si sofferma Bartezzaghi, invitando tutti noi a una riflessione scevra di tecnologismi e velocità tipicamente imposte dai tempi che corrono, sta a monte, e tocca il meccanismo stesso di traduzione.
È risaputo e logico, o per lo meno dovrebbe esserlo, che le lingue sono sistemi complessi di comunicazione che recano nel proprio bagaglio morfologico, sintattico e lessicale una serie di regole. Si potrebbe risalire alla sociologia, all’antropologia, alla semiotica, ma restiamo sul generico: la lingua è un sistema che, tramite regole che la distinguono come unica, prende in consegna il complesso e affascinante gioco della significazione. La lingua ci permette di capirci, di comunicare, di creare, e perfino di giocare. Com’è dunque possibile che un software, Google e i suoi potenti calcolatori in questo caso, faccia le veci di un essere umano, che nel proprio linguaggio riversa cultura, elemento tipicamente estraneo a un ammasso di microchip?
Venugopal spiega così l’artificio: “quando sono arrivato a Google abbiamo rivoluzionato il modo in cui venivano fatte le traduzioni. Fino ad allora anche nei siti Internet l’approccio era quello classico. Noi abbiamo scelto quello statistico. Se io chiedo: come si traduce questo in italiano?, la risposta classica sarà: applica questa regola. L’approccio statistico invece dice: non preoccuparti di fornirmi le regole, ma aiutami a produrre qualcosa che possa funzionare sempre, magari con errori, ma possa funzionare sempre”. Ovvero: Google sfrutta la sua potenza di calcolo per confrontare tutte le traduzioni esistenti di uno stesso testo. Rintraccia le parole che tornano, stabilisce connessioni. Il gioco sta tutto qui: la rapidità e la mole di dati costituiscono il trucco.
Ma ci sono anche intoppi, a cui il team della Silicon Valley sta lavorando. Alcune lingue, come l’italiano, hanno più “inflessioni”, definizione usata da Venugopal per spiegare che l’accordo tra soggetto e verbo modifica la desinenza; altre lingue ritengono pertinente l’ordine delle parole nella frase. Più sono i dati analizzati da Google, più la traduzione sarà possibile, verosimile, “raffinata”. Problema immenso allora per quelle lingue presenti in misura minore sul web, che magari hanno anche molte inflessioni e regole di sintassi. Mister Translate è quindi destinato ad appestare la categoria dei traduttori “umani”? Pare proprio di no. Per quanto Google faciliti l’immediatezza di comunicazione che risponde ai ritmi accelerati della quotidianità, il passaggio da una lingua all’altra avviene, sì, ma è un ponte di corda pronto a cedere sotto il peso delle parole e delle regole del sistema linguistico.
Trattasi di quelli che Bartezzaghi definisce “gli inganni nascosti della Babele virtuale”: errori in cui, per cause meccaniche e statistiche, cadono i traduttori virtuali. Errori in cui, secondo il linguista, saremmo indotti a cadere anche noi, sfruttatori della traduzione immediata sul web che, per la solita abitudine diffusa del non soffermarsi a riflettere, lasceremmo la porta aperta alla peste del linguaggio già individuata da Italo Calvino nella lezione sull’Esattezza (Italo Calvino, “Lezioni Americane”). Le incertezze della traduzione automatica “fanno da stampella alle nostre manchevolezze e alla nostra fretta; con la loro beffarda indifferenza alla logica del discorso ci ricordano di tenere nel giusto conto le spesso insospettabili differenze fra le lingue e di onorare la professione (così bistrattata) di traduttori e traduttrici appartenenti al genere umano”.
La questione si fa estesa: Google, le lingue, il linguaggio, la comunicazione. La Babele citata da Bartezzaghi prende tridimensionalità: ma allora viviamo davvero in un mondo intraducibile, e quindi incomunicabile? Si scende nel filosofico: “Babele ci divide – continua a spiegare Bartezzaghi – ma col dividerci ci unisce nella comune umanità. Se tutti gli uomini parlassero una lingua sola non sarebbero uomini. Sarebbero angeli: o computer”. Elogio dell’imperfezione umana? No: realismo piuttosto, che si afferma contro chi, oggigiorno, accende il computer, apre un browser, clicca Google e inserisce una frase da tradurre, credendo fiducioso che la risposta della macchina corrisponda a verità. La verità in traduzione non esiste mai, è come la perfezione: è la meta costante, collocata sempre oltre la barriera visibile dell’orizzonte. Lo sa bene chi traduce per professione: i problemi sono molti, dal fraseggio, alla struttura linguistica, a concetti sviluppati dalla cultura della lingua di origine, che nella lingua di arrivo non sono presenti, al dilemma del piano espressivo (onomatopee, rime, sonorità, giochi di parole…). Google fa statistica, e a queste difficoltà non pensa né tantomeno cerca di risolverle nel più efficace dei modi, attivando ciò che è tipicamente umano: la creatività.
Preso atto di questo passaggio imprescindibile, e meditato anche sulla necessità di portare un po’ di cultura del tradurre nelle scuole (laddove la costante attività di versioni dal latino e/o dal greco non basti ad allenare ed educare sul passaggio tra universi linguistici lontani), in anni in cui la piattaforma web fornisce qualsiasi testo in più versioni linguistiche illudendo di poter saltellare dall’una all’altra “forma” senza particolari ostacoli, Bartezzaghi fa un passo avanti:
“Il vero e unico errore incomincia quando si pensa che per tradurre un testo basta passarlo da un traduttore automatico. […] Ma pensate davvero che un computer possa tradurre una frase senza averla capita? O in alternativa che possa capirla? Il problema non è l’errore: come sempre il problema è la correzione, o meglio la mancata correzione”. Da Google Translate, alla nostra lingua corrente. Perché il vero nodo della questione non è uno strumento meccanico che, come tale, non può essere perfetto, ma è il suo corretto utilizzo da parte di cervelli pensanti, affinché non prenda piede l’illusione che ciò che ci resta di più umano – la comunicazione primaria espressa con il linguaggio – sia ripetibile da un computer.
E per coltivare la lingua, non lasciarla in balia dei chip e dei pixels, Bartezzaghi chiude con la proposta di conciliare esigenze di rapidità momentanee e corretto approccio alla traduzione in un progetto di educazione che porterebbe a maggiore coscienza sui limiti del traduttore automatico, e sulle potenzialità del bagaglio linguistico. Ecco cosa scrive: “A scuola […] si potrebbe insegnare a correggere (prima ancora, a subodorare) gli errori che il computer ci induce a compiere, o a omettere di correggere. […] Si potrebbe allora dare come esercizio la correzione di una traduzione compiuta da Google Translate. Cosa che magari darebbe anche adito a utili riflessoni linguistiche e filosofiche sul fatto che una frase non è un accatastamento di parole, ma è innanzitutto una forma sintattica che dà senso a ogni singola parola grazie ai propri nessi. Quelli li percepiamo solo noi: per ora e, certo, quando ci sono”.
Bibliografia per chi volesse approfondire:
Calvino Italo, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2002;
Eco Umberto, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano, 2007;
Munday Jeremy (a cura di), The Routledge Companion to Transation Studies, Routledge, London and New York, 2009;
Volli Ugo, Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2008;
Zacchi Romana, Morini Massimiliano (a cura di), A.A.V.V., Manuale di traduzioni dall’inglese, Bruno Mondadori, Milano, 2002.
Sul “valore” di ogni disciplina
L’uomo, per analizzare e comprendere più profondamente la realtà di fronte ai suoi occhi, ha da sempre cercato di suddividerla e classificarla. La stessa tendenza ha caratterizzato i diversi domini di conoscenza e le diverse discipline, da quelle umanistiche a quelle scientifiche; in un tale quadro, non stupisce in alcun modo che la storia non abbia fatto eccezione.
Gli studenti seduti nei loro banchi hanno, spesso, posto una particolare domanda al loro professore: “ma a cosa serve studiare la storia?”. Una domanda, a volte, nata dalla sincera volontà di capire l’utilità di una tale materia, altre volte, ispirata dalla non tanto velata volontà di mettere in difficoltà il mal capitato docente. Alcuni hanno risposto che conoscere la propria storia aiuta a non commettere più gli errori del passato; senza alcun dubbio, una tesi affascinante, che, però, viene smentita dalla continua tendenza dell’uomo a dimenticare, a pensare “questa volta sarà diverso”, a commettere iterativamente errori quantomeno simili. Altri possono aver sottolineato il valore identitario di quello che ci ha preceduto, ovvero, noi siamo ciò che siamo in virtù di ciò che è stato prima. Forse, la storia non avrà la stessa utilità pratica della matematica, della fisica e della chimica, ma senza questa non sapremmo nemmeno dire come siamo arrivati alle scoperte scientifiche che hanno rivoluzionato le società nel corso dei millenni e dei secoli. Anche un singolo individuo senza memoria del suo vissuto è come un bambino che si muove malcerto e procede per tentativi, senza la guida di un adulto.
La storia ci aiuta a comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. La storia, prendendo in considerazione gli sviluppi umani, culturali, sociali, economici, giuridici, scientifici, artistici religiosi di una società ci offre gli elementi essenziali per spiegare, senza ricorrere a categorie quali “fato” e “destino”, come mai si sia verificato un determinato evento.Il senso di queste parole può essere veramente colto, applicando il ragionamento a un evento concreto; tra tutti quelli che si potrebbero scegliere, pensiamo sia particolarmente interessante la fine della divisione del mondo in due blocchi. Non si tratta di un singolo evento, bensì di un complesso di micro e macro eventi che hanno contribuito a modificare la visione del mondo dominante per poco meno di cinquant’anni; uno spartiacque che, proprio perché relativamente recente, appartiene in modo più o meno marcato all’esperienza personale e/o mediata di gran parte di noi. Non tutti, però, hanno vissuto questi avvenimenti con la stessa consapevolezza della loro portata, non tutti hanno avuto accesso alla stessa quantità/qualità di informazioni; sembra, quindi, interessante fare riferimento a un personaggio che, per formazione e per ruolo, può essere ritenuto un “testimone privilegiato”. Nel suo libro, “L’era della turbolenza”, Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve dal 1987 al 2006, racconta il suo punto di vista su tutti questi eventi, con uno stile semplice, comprensibile e, a tratti, accattivante. Greenspan, nell’ottobre del 1989, viene chiamato a spiegare la finanza capitalista a una platea di economisti e banchieri sovietici e rimane stupito della profonda conoscenza dimostrata da alcuni dei presenti. Poco tempo dopo, il 9 novembre 1989, crolla il muro di Berlino. Come ricorda Greenspan, “uno dei dibattiti più importanti del XX secolo riguardava il controllo governativo desiderabile per il bene collettivo” (GREENSPAN, p.144). Si confrontavano, quindi, sia due diverse visioni del mondo, sia due diverse modelli di organizzazione economica: da una parte, il libero mercato e, dall’altra, la pianificazione centrale.
La Germania, fino al 1945, era stata una nazione unita, che condivideva una cultura, una lingua, una storia e un complesso di valori. A partire da questa base comune, si era, poi, innestata una variabile differente: il sistema politico ed economico. Sembra, quindi, ragionevole ritenere che la diversità tra la Germania Est e la Germania Ovest sia, in gran parte, imputabile al differente cammino imboccato al termine del secondo conflitto mondiale. Questo non deve, però, far cadere in una sorta riduzionismo: il modello di organizzazione economica non è una realtà a se stante che si impone sulle altre, bensì una struttura che, per il suo funzionamento, si basa su una serie di precondizioni culturali e sociali. Ciò emerge in modo evidente, se l’attenzione si sposta sul difficile passaggio dalla pianificazione al capitalismo da parte dell’URSS. Mentre, nel caso della Polonia e della Cecoslovacchia, i leader politici avevano potuto contare sull’appoggio popolare, i cittadini sovietici, in passato orgogliosi del ruolo di superpotenza della loro nazione, vivevano questi avvenimenti come un’umiliazione. A questa difficoltà, se ne aggiungono altre più concrete, come ricorda Greenspan: “[…] Erano passati troppi anni dal 1917, e quasi nessuno ricordava in prima persona la proprietà privata o aveva esperienza imprenditoriale. Non esistevano ragionieri, revisori, analisti o avvocati specializzati in diritto commerciale, nemmeno fra i pensionati. Nell’Europa dell’Est, dove il comunismo aveva regnato per quarant’anni anziché ottanta, si era potuto ristabilire un libero mercato; in Unione Sovietica lo si doveva resuscitare dall’oltretomba” (GREENSPAN, p.152).
Il crollo dell’URSS e il passaggio obbligato a un’economia di mercato è un’occasione per riflettere e per riconoscere “i fondamenti istituzionali necessari ai liberi mercati” (GREENSPAN, p.154). La trasformazione è stata sì necessaria, ma non certo automatica; le ragioni delle tante difficoltà incontrate lungo questo cammino sono legate alla “vasta rete di sostegno culturale e infrastrutturale, evolutasi per generazioni [nei paesi occidentali, comprendente]: leggi, consuetudini, norme deontologiche e professionali” (GREENSPAN, p.154).
Tutto ciò, si spera, dovrebbe aiutare a non sottovalutare mai l’importanza di determinati fattori, a non credere che alcune discipline siano inutili, solo perché prive di una immediata applicabilità tecnico-produttiva: esse costituiscono una precondizione, un retroterra necessario al funzionamento di determinate strutture e infrastrutture chiave all’interno della nostra società contemporanea. Tutte le discipline hanno un loro valore e una loro valenza pratica, anche se, in alcuni casi, è necessario avere un occhio allenato e attento che sappia svolgere un’analisi critica e non si blocchi alla pura esteriorità delle cose. Fortunatamente, ci sono ancora cammini formativi che si propongono questo fondamentale obiettivo.
(ALAN GREENSPAN, L’era della turbolenza, Sperling & Kupfer, 2007; traduzione di Dade Fasic, Andrea Mazza, Cristina Volpi, The Age of Turbolence, 2007)
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