La peste del traduttore

Un morbo terribile e temibile come la peste sta affliggendo ormai inesorabilmente una categoria professionale da sempre dimenticata e relegata nel più remoto angolo della trafila editoriale, e non solo: i traduttori. Nessuna tumefazione o segno visibile sulla superficie, ed è forse questo il dettaglio che più preoccupa. I traduttori sono stati attaccati dal feroce e letale virus di Google Translate, tanto fulminante quanto apparentemente invisibile.

Affronta l’argomento Stefano Bartezzaghi, linguista “figlio d’arte” che, su Repubblica del 16 gennaio, torna come d’abitudine sul tema del maltrattamento del linguaggio, delle inesattezze accumulate che creano nuove, erratissime, regole fasulle, della scarsa attenzione del lettore e del parlante contemporaneo. Problemi recentemente riassunti e spiegati in “Come dire. Galateo della comunicazione” (Mondadori, 2011), volume in cui il “re del gioco di parole” sviscera gli acciacchi e le insidie di quella che è la vera dominatrice del mondo moderno, troppo spesso invisibile a molti: la comunicazione. La ghiotta occasione per tornare a parlare di lingua, sistemi di comunicazione e umanità è fornita dall’articolo di Angelo Arquaro attiguo a quello di Bartezzaghi (anch’esso sull’inserto di Repubblica R2, dello stesso giorno), che presenta e racconta la storia di Mister Translate.

Brevemente: il genio informatico Ashish Venugopal, indiano, 33 anni, uno dei principali implementatori del sistema Google Translate, ha annunciato l’ultima frontiera dei suoi progetti, l’applicazione che darà voce alle traduzioni usatissime ogni giorno in tutto il mondo per capire e farsi capire chi non parla la propria lingua. Di per sé questo passo implica poche riflessioni: è sufficiente un’applicazione vocale come quelle utilizzate in alcuni software di conversione testo/voce per passare dal testo scritto di una traduzione di google, al testo parlato. Non voce, sottolineiamolo bene: testo parlato. Il passo, dicevamo, è in questo senso solamente “tecnico”: una voce tradurrà ciò che Google ha già tradotto. Lo snodo su cui si sofferma Bartezzaghi, invitando tutti noi a una riflessione scevra di tecnologismi e velocità tipicamente imposte dai tempi che corrono, sta a monte, e tocca il meccanismo stesso di traduzione.

È risaputo e logico, o per lo meno dovrebbe esserlo, che le lingue sono sistemi complessi di comunicazione che recano nel proprio bagaglio morfologico, sintattico e lessicale una serie di regole. Si potrebbe risalire alla sociologia, all’antropologia, alla semiotica, ma restiamo sul generico: la lingua è un sistema che, tramite regole che la distinguono come unica, prende in consegna il complesso e affascinante gioco della significazione. La lingua ci permette di capirci, di comunicare, di creare, e perfino di giocare. Com’è dunque possibile che un software, Google e i suoi potenti calcolatori in questo caso, faccia le veci di un essere umano, che nel proprio linguaggio riversa cultura, elemento tipicamente estraneo a un ammasso di microchip?

Venugopal spiega così l’artificio: “quando sono arrivato a Google abbiamo rivoluzionato il modo in cui venivano fatte le traduzioni. Fino ad allora anche nei siti Internet l’approccio era quello classico. Noi abbiamo scelto quello statistico. Se io chiedo: come si traduce questo in italiano?, la risposta classica sarà: applica questa regola. L’approccio statistico invece dice: non preoccuparti di fornirmi le regole, ma aiutami a produrre qualcosa che possa funzionare sempre, magari con errori, ma possa funzionare sempre”. Ovvero: Google sfrutta la sua potenza di calcolo per confrontare tutte le traduzioni esistenti di uno stesso testo. Rintraccia le parole che tornano, stabilisce connessioni. Il gioco sta tutto qui: la rapidità e la mole di dati costituiscono il trucco.

Ma ci sono anche intoppi, a cui il team della Silicon Valley sta lavorando. Alcune lingue, come l’italiano, hanno più “inflessioni”, definizione usata da Venugopal per spiegare che l’accordo tra soggetto e verbo modifica la desinenza; altre lingue ritengono pertinente l’ordine delle parole nella frase. Più sono i dati analizzati da Google, più la traduzione sarà possibile, verosimile, “raffinata”. Problema immenso allora per quelle lingue presenti in misura minore sul web, che magari hanno anche molte inflessioni e regole di sintassi. Mister Translate è quindi destinato ad appestare la categoria dei traduttori “umani”? Pare proprio di no. Per quanto Google faciliti l’immediatezza di comunicazione che risponde ai ritmi accelerati della quotidianità, il passaggio da una lingua all’altra avviene, sì, ma è un ponte di corda pronto a cedere sotto il peso delle parole e delle regole del sistema linguistico.

Trattasi di quelli che Bartezzaghi definisce “gli inganni nascosti della Babele virtuale”: errori in cui, per cause meccaniche e statistiche, cadono i traduttori virtuali. Errori in cui, secondo il linguista, saremmo indotti a cadere anche noi, sfruttatori della traduzione immediata sul web che, per la solita abitudine diffusa del non soffermarsi a riflettere, lasceremmo la porta aperta alla peste del linguaggio già individuata da Italo Calvino nella lezione sull’Esattezza (Italo Calvino, “Lezioni Americane”). Le incertezze della traduzione automatica “fanno da stampella alle nostre manchevolezze e alla nostra fretta; con la loro beffarda indifferenza alla logica del discorso ci ricordano di tenere nel giusto conto le spesso insospettabili differenze fra le lingue e di onorare la professione (così bistrattata) di traduttori e traduttrici appartenenti al genere umano”.

La questione si fa estesa: Google, le lingue, il linguaggio, la comunicazione. La Babele citata da Bartezzaghi prende tridimensionalità: ma allora viviamo davvero in un mondo intraducibile, e quindi incomunicabile? Si scende nel filosofico: “Babele ci divide – continua a spiegare Bartezzaghi – ma col dividerci ci unisce nella comune umanità. Se tutti gli uomini parlassero una lingua sola non sarebbero uomini. Sarebbero angeli: o computer”. Elogio dell’imperfezione umana? No: realismo piuttosto, che si afferma contro chi, oggigiorno, accende il computer, apre un browser, clicca Google e inserisce una frase da tradurre, credendo fiducioso che la risposta della macchina corrisponda a verità. La verità in traduzione non esiste mai, è come la perfezione: è la meta costante, collocata sempre oltre la barriera visibile dell’orizzonte. Lo sa bene chi traduce per professione: i problemi sono molti, dal fraseggio, alla struttura linguistica, a concetti sviluppati dalla cultura della lingua di origine, che nella lingua di arrivo non sono presenti, al dilemma del piano espressivo (onomatopee, rime, sonorità, giochi di parole…). Google fa statistica, e a queste difficoltà non pensa né tantomeno cerca di risolverle nel più efficace dei modi, attivando ciò che è tipicamente umano: la creatività.

Preso atto di questo passaggio imprescindibile, e meditato anche sulla necessità di portare un po’ di cultura del tradurre nelle scuole (laddove la costante attività di versioni dal latino e/o dal greco non basti ad allenare ed educare sul passaggio tra universi linguistici lontani), in anni in cui la piattaforma web fornisce qualsiasi testo in più versioni linguistiche illudendo di poter saltellare dall’una all’altra “forma” senza particolari ostacoli, Bartezzaghi fa un passo avanti:

Il vero e unico errore incomincia quando si pensa che per tradurre un testo basta passarlo da un traduttore automatico. […] Ma pensate davvero che un computer possa tradurre una frase senza averla capita? O in alternativa che possa capirla? Il problema non è l’errore: come sempre il problema è la correzione, o meglio la mancata correzione”. Da Google Translate, alla nostra lingua corrente. Perché il vero nodo della questione non è uno strumento meccanico che, come tale, non può essere perfetto, ma è il suo corretto utilizzo da parte di cervelli pensanti, affinché non prenda piede l’illusione che ciò che ci resta di più umano – la comunicazione primaria espressa con il linguaggio – sia ripetibile da un computer.

E per coltivare la lingua, non lasciarla in balia dei chip e dei pixels, Bartezzaghi chiude con la proposta di conciliare esigenze di rapidità momentanee e corretto approccio alla traduzione in un progetto di educazione che porterebbe a maggiore coscienza sui limiti del traduttore automatico, e sulle potenzialità del bagaglio linguistico. Ecco cosa scrive: “A scuola […] si potrebbe insegnare a correggere (prima ancora, a subodorare) gli errori che il computer ci induce a compiere, o a omettere di correggere. […] Si potrebbe allora dare come esercizio la correzione di una traduzione compiuta da Google Translate. Cosa che magari darebbe anche adito a utili riflessoni linguistiche e filosofiche sul fatto che una frase non è un accatastamento di parole, ma è innanzitutto una forma sintattica che dà senso a ogni singola parola grazie ai propri nessi. Quelli li percepiamo solo noi: per ora e, certo, quando ci sono”.

 

Bibliografia per chi volesse approfondire:

Calvino Italo, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2002;

Eco Umberto, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano, 2007;

Munday Jeremy (a cura di), The Routledge Companion to Transation Studies, Routledge, London and New York, 2009;

Volli Ugo, Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2008;

Zacchi Romana, Morini Massimiliano (a cura di), A.A.V.V., Manuale di traduzioni dall’inglese, Bruno Mondadori, Milano, 2002.

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A tutti i pragmatici, un po’ di utopia. E viceversa

31 dicembre 2011. Un anno fa questo blog si proponeva di popolare la grande foresta del web con contenuti aggiornati, ben scritti e graffianti sulla comunicazione. Ci siamo, effettivamente, un po’ perse. Tuttavia, come da copione, tra i propositi per il nuovo anno alle porte c’è ancora una volta quello di portare avanti seriamente e con rigore questo impegno telematico.

E allora auguri a tutti, e a noi tre per prime se mi permettete la poca modestia. Noi tre che in questo momento siamo più lontane di un anno fa, ognuna su una strada differente, per quanto insicura e magari sbagliata. Ma sono tempi che vanno così,  e altrimenti non potremmo fare. Voglio dedicarci, e dedicare a quanti si trovino nella nostra condizione di “twentysomething” senza chiari piani per il futuro, ma con tanta voglia di fare, una poesia di Rudyard Kipling spesso citata da Indro Montanelli: “If”, “Se”. L’uno ottimistico utopista ottocentesco, le cui parole, oggi come non mai, sono ancora fortemente valide. L’altro, pragmatica voce indipendente che ha attraversato a testa alta, con curiosità incessante ed estremo rigore sul lavoro, tutto il Novecento. A noi e a tutti i giovani laureati precari, queste parole di forza e coraggio, per un 2012 pieno di successi, e di rivincite.

“Se riuscirai a tener salda la testa quando tutti la perdono e te ne fanno una colpa;

Se riuscirai a credere in te quando tutti ne dubitano, ma anche a tener conto del loro dubbio;

Se saprai aspettare e non stancarti di aspettare e calunniato non rispondere con la calunnia senza cercare di sembrare troppo buono né di parlare troppo saggio;

Se riuscirai a sognare senza fare del sogno il tuo padrone e a pensare senza fare del pensiero il tuo scopo;

Se riuscirai ad affrontare Trionfo e Rovina e a trattare allo stesso modo questi due impostori;

Se riuscirai a sopportare che le tue verità siano distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi e vedendo infrante le cose cui dedicasti la vita metterti a ricostruirle coi tuoi logori arnesi;

Se riuscirai a fare un mucchio di tutte le tue vincite e a rischiarle in un solo colpo a testa e croce e perdere e ricominciare daccapo senza fare parola della tua perdita;

Se riuscirai a serrare cuore, tendini e nervi quando sono sfiniti e a tener duro quando in te altro non resta che la forza di dire “Tieni duro!”;

Se riuscirai a dire il vero anche quando parli alla folla e a camminare coi Re rimanendo te stesso;

Se il nemico non potrà ferirti ma nemmeno l’amico più caro; Se tutti per te conteranno ma nessuno troppo;

Se riuscirai a riempire il minuto che passa dando il suo valore ad ogni secondo;

Tuo sarà il mondo e tutto ciò che contiene e – quel che più conta – tu sarai un uomo, figlio mio!”

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D come Design, D come Donna


Berlino. Si è conclusa da poco più di un mese la nona edizione del DMY International Design Festival, che dal 1 al 5 giugno ha fatto dell’aeroporto Tempelhof il regno della creatività. La sorellina minore della prestigiosa Settimana del Design di Milano ha riunito in un’unica location decine e decine di idee geniali e oggetti accattivanti. A riprova del fatto che il design è questione di stile misto a confort e originalità, gli stand dell’evento hanno ospitato proposte che vanno a sdrammatizzare, se non a semplificare, il vivere quotidiano: dalla poltrona con coperta incorporata all’armadio ad incastro, dalle scarpe ripiegabili come calzini alla chaise longue con annessa libreria, il multiuso è un diktat da rispettare e reinterpretare. La libertà di espressione fluisce copiosa da ogni singola opera esposta, piccoli e grandi manufatti al confine tra arte contemporanea e prodotto di consumo. Come la lampada fatta di posate o la sedia composta da palline antistress multicolor. C’è spazio anche per intuizioni che strizzano l’occhio all’universo della moda, è il caso dei tronchetti che si chiudono ermeticamente per preservare il calore dei piedi anche a temperature sotto lo zero, o dell’abito da donna total white dal tocco avveniristico. Il futuro del design è il tema principale del festival, nella capitale europea più attenta alle esigenze dei giovani i protagonisti sono proprio gli under 30 che tra workshops, incontri e presentazioni di prototipi si sono avvicendati e intrecciati come creativi e come pubblico.

L’evento teutonico ha riacceso i riflettori su un universo che si compone di molteplici sfaccettature. Una declinazione “color pesca” del mondo del design ce la regala l’olandese Kiki Van Eijk, con il suo sguardo prettamente femminile.

Classe 1978, laureata a ventidue anni presso la Design Academy di Eindhoven, mostra con suoi lavori un perfetto connubio di passato presente e futuro, frutto di attente riflessioni sull’uso dei colori, dei motivi e delle consistenze. Protagonista di una video intervista su Yoox, rivela le fonti di ispirazione del suo gusto fiabesco nell’elaborazione dei materiali: “Per i miei progetti indipendenti traggo ispirazione dalle cose più disparate ma generalmente sono gli oggetti che usiamo tutti i giorni a catturare la mia attenzione, al primo sguardo non rivelano molto ma se osservati da più vicino si scopre qualcosa di speciale. Puo’ trattarsi di un pezzo d’antiquariato, un’antica forchetta magnificamente fabbricata o un semplice bottone. Per esempio ho trovato una scatola con bottoni di tutti i tipi, di diversi colori e materiali appartenuta a mia nonna e l’ho usata per fare una tovaglia. Non vengo letteralmente ispirata dalla natura ma trovo importante viverci […] non ottieni l’ispirazione da un fiore ma semplicemente perché ti trovi in un altro mondo. Quando ho bisogno di idee a volte mi allontano dal mio studio e passo la giornata in giardino e molto spesso le mie creazioni hanno una forma organica semplicemente perché si allineano meglio alle mie idee.”

Ecco una serie di lavori dell’artista diventata famosa grazie al “Kiki Carpet” :

Brick carpet

Murano glass object

Installazione: The Nursery

Per ascoltare e vedere l’intervista rilasciata a Yoox:

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Forse un giorno si dirà: italiano, “per fortuna, lo sono”

 

Un compleanno importante quello che si festeggerà il 17 marzo 2011: l’Italia, infatti, compirà 150 anni. Dopo infinite e sterili polemiche, anche sull’onda dell’entusiasmo di Benigni sul palco dell’Ariston, è stato confermato che il 17 marzo sarà per quest’anno festa nazionale, la Festa del tricolore.

Di fronte, alle voci sulla non necessità di festeggiare, sulle scelte di non prendere parte alle celebrazioni pubblicizzate da alcuni noti e meno noti esponenti politici a livello nazionale o locale, sarebbe forse auspicabile fermarsi a riflettere sul significato di una tale ricorrenza alla luce dei nostri trascorsi nazionali e pre-unitari.

L’unificazione dello stato italiano è un processo relativamente recente all’interno del contesto europeo. I motivi del ritardo italiano sono certo molteplici e legati a diversi fenomeni; particolarmente rilevante, è il peso che nella penisola hanno avuto a partire dal Medioevo (1400) le città, soprattutto “[la] città commerciale a dominanza marittima, che prospera grazie ai flussi e agli scambi” (Le Galès, p.26), la città dei mercanti. Gli Stati moderni si sono sviluppati prima nei paesi in cui le città erano meno forti, mentre, come ricorda Le Galès, “le città commerciali mediterranee, tedesche, svizzere, delle Fiandre e dei Paesi Bassi hanno resistito piuttosto a lungo alla conquista degli Stati più vasti” (Le Galès, p.25). La tendenza al campanilismo è, dunque, ben radicata nel patrimonio “genetico” italiano e ha reso, per secoli, la nostra nazione terra di conquista e d’influenza delle potenze straniere, come l’impero asburgico.

Non sono, però, mancati gli sforzi intellettuali e politico-militari a favore dell’unificazione nazionale. Ancora prima che l’unificazione politica fosse compiuta è uno scrittore italiano di indubbia fama e ingiustamente inviso a molti liceali, Alessandro Manzoni, con il suo romanzo “I promessi sposi” a tentare una sorta di unificazione linguistica a livello letterario: lui, milanese e nipote di Cesare Beccaria (l’autore del trattato “Dei delitti e delle pene”), si reca a Firenze per “risciacquar i panni in Arno”. L’unificazione linguistica popolare avverrà solo più tardi e sarà facilitata dalle guerre di trincea che vedranno gli uni vicino agli altri soldati provenienti da diverse regioni italiani, il calabrese e il lombardo, il piemontese e il pugliese, il campano e il ligure, il siciliano e il toscano, e così via. Alla luce delle fatiche affrontate da molti e della vita sacrificata da tanti nostri antenati durante le tante guerre d’indipendenza nel tentativo di fare l’Italia, ci si può chiedere come sia possibile non celebrare un tale compleanno con riconoscenza e con rispetto. Paradossalmente così come il processo di unificazione ha visto il nord Italia in prima linea in tutti i sensi, anche il coro di coloro che non intendono celebrare la ricorrenza è in gran parte “nordico”, come se alcuni avessero dimenticato o ignorassero i tempi in cui le note e i versi del “Va pensiero” venivano intonati dai loro tris-nonni.

In tempi non sospetti, Massimo d’Azeglio disse “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”; il tempo è trascorso, ma evidentemente la strada è ancora lunga e irta di ostacoli. Il federalismo non sembra certo essere la via maestra verso questo obiettivo, anche se viene spesso sbandierata come la panacea per tutti i mali nazionali. In realtà, nel corso degli ultimi anni, le parole, su questo tema, sono state spesso contraddette dai fatti: il vero federalismo, ossia quello di natura fiscale, è stato, in un certo senso, rinnegato dalla decisione di abolire l’Ici sulla prima casa senza distinzione di reddito alcuna. Scelta che ha esautorato l’autonomia fiscale degli enti locali e, con essa, la loro possibilità d’azione. Aspettiamo di vedere in pratica cosa produrrà il nuovo federalismo, quello “municipale”.

Più preoccupanti sono le dichiarazioni di chi vorrebbe, in Piemonte, privare gli studenti provenienti da fuori regione dell’accesso alle borse di studio. Da un punto di vista economico, si tratta di una visione miope: gli universitari fuori sede non solo contribuiscono a rendere la città culturalmente viva e “attrattiva”, ma portano nuove risorse, fruendo di case in affitto, cinema, teatri, bar, mercati rionali, negozi, mezzi pubblici etc. Ponendosi in un altra prospettiva, questa decisione, da una parte, danneggia i ragazzi che vivono in regioni con università meno quotate, limitando fortemente la loro libertà di scelta; dall’altra, implica la discriminazione fra individui della stessa nazionalità: mentre cadono le frontiere nazionali tra i paesi europei, vengono innalzate le frontiere tra regioni italiane.

Questo evento singolo evento è solo un esempio che richiama a una questione più ampia e molto seria: l’Italia non è un paese perfetto, molte cose non funzionano o funzionano male e dovrebbero essere migliorate, si altre ancora non possiamo andare fieri, ma ha perlomeno un patrimonio storico-artistico-intellettuale di cui si può essere ragionevolmente orgogliosi e da cui si potrebbe ripartire: allora, prendendo a prestito parole altrui, se recentemente, in risposta alle dinamiche della globalizzazione “[…] un po’ per non morire o forse un po’ per celia abbiam fatto l’Europa, facciamo anche l’Italia”! (Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano).

Dopo 150 anni, sarebbe quasi ora!

(Bibliografia: Patrick Le Galès, Le città europee, Il Mulino, Bologna, 2006)

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Diversamente bello, diversamente donne.

Una serie di riflessioni si sono fatte strada nei miei pensieri in questi ultimi giorni, un po’ dovute all’atmosfera che si respira in questo delicato periodo di sommovimenti sociali, un po’ frutto di spunti creativi dovuti a letture presenti e passate. Motore del mio sconvolgimento interiore di cui voglio rendervi partecipi sono state principalmente le parole della scrittrice Mariapia Veladiano, intervistata in occasione dell’uscita della sua opera prima La vita accanto. Un libro sulla bruttezza, l’emarginazione, il rifiuto, dallo stile diretto e raffinato che ha vinto il Premio Calvino 2010.

Eccone uno stralcio:
Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia. Nessuna razionalità intatta con cui analizzarla. Non c’è prospettiva d’insieme. Non c’è oggettività. La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire.

Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi. Sinceramente non sa se un vestito rosso carminio, attillato, con il decollété bordato di velluto, le piacerebbe più di quello blu, elegante e del tutto anonimo che usa di solito quando va a teatro e sceglie sempre l’ultima fila e arriva all’ultimo minuto, appena prima che le luci si spengano, e sempre d’inverno perché il cappello e la sciarpa la nascondono meglio. Non sa nemmeno se le piacerebbe mangiare al ristorante o andare allo stadio o fare il cammino di Santiago di Compostella o nuotare in piscina o al mare. Il possibile di una donna brutta è così ristretto da strizzare il desiderio. Perché non si tratta solo di tenere conto della stagione, del tempo, del denaro come per tutti, si tratta di esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo.


Io sono brutta. Proprio brutta.


Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà. Ho tutti i pezzi al loro posto, però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta. Non ha senso l’elenco: non rende. Qualche volta, quando voglio farmi male, mi metto davanti allo specchio e passo in rassegna qualcuno di questi pezzi: i capelli neri ispidi come certe bambole di una volta, l’alluce camuso che con l’età si è piegato a virgola, la bocca sottile che pende a sinistra in un ghigno triste ogni volta che tento un sorriso. E poi sento gli odori. Tutti gli odori, come gli animali.

Duecento pagine sul “dolore di non essere accolti, di non avere un posto nella vita” così commenta l’autrice parlando del cuore del libro.

La vita accanto“Non c’è vita se qualcuno non ci prepara un posto e non ci chiama per nome. […]Ma quando l’infelicità si è così sedimentata in noi da abitare i desideri e i pensieri, la paura prevale su tutto. Sogno e illusioni in questo caso sono crudelissimi, perché quando finiscono si cade più in basso di prima.” E se le si chiede come è nato questo libro Mariapia risponde: “Credo che sia affiorato, nella mia più totale inconsapevolezza, qualcosa che è legato al mio vivere a scuola […]A scuola talvolta, e oggi più di un tempo, si incontrano delle figure di ‘vinti’. Le chiamo così perché sono intrise di un senso di sconfitta che si esprime nei gesti incerti, nelle parole che non trovano il suono, nelle spalle spillate dagli sguardi del mondo. Spesso sono ragazze che si percepiscono brutte a prescindere dal loro reale aspetto. Poi si scopre che dietro c’è altro, dolori grandi che non sanno raccontare e liberare. È così anche per Rebecca” la protagonista del libro “Lei è brutta davvero, questo eccesso di bruttezza può essere l’aspetto letterario della cosa, ma dietro c’è altro. Lei porta in sé il dolore della madre. La cultura della bellezza abbagliante e ostentata non aiuta a vedere la verità delle persone. La bellezza oggi è una maschera tremenda. È cercata ossessivamente, ostentata, celebrata, divinizzata. Un idolo di carta, usa e getta, perché il canone, in termini di età, misure, levigatezza dell’immagine, è tale che dura pochissimo e, se dietro c’è il nulla, finita quella bellezza non resta niente”.
Questi concetti mi sembrano più che mai attuali all’indomani della mobilitazione delle donne scese in piazza per esprimere il loro sdegno verso un certo tipo di “personaggio femminile” che fa della sua bellezza l’unico vanto, se non lo strumento per ottenere successo facile. La superficie sembra essere diventata l’oggetto principe di tavole rotonde dai toni esacerbanti, onnipresenti su ciascun prodotto mediale, dalla televisione al quotidiano. E se addirittura le pagine dei cosiddetti quotidiani seri, che dovrebbero essere il baluardo della nostra cultura, si tingono di rosa diventando i peggiori diffusori di gossip a buon mercato dove possiamo ambire di trovare la pura informazione senza contaminazioni?


Se non ora quando? È un motto per dire che è giunto il momento di reagire al culto della bellezza abbagliante e andare più a fondo per scoprire la verità delle persone, soprattutto di noi donne. È una causa senza colore né bandiera, che non deve essere strumentalizzata ma solo percepita per ciò che rappresenta: un grido di denuncia. Non possiamo permetterci di regredire, di essere etichettate ed etichettare. Perché rischieremmo di cadere nella bruttura indecente di ciò che più di tutto aborriamo, lo stereotipo. Invece dovremmo scoprire le mille sfaccettature dell’io, aprirci al diverso, al brutto. Per fare questo ci vengono in aiuto grandi maestri della letteratura italiana e straniera che ci presentano punti di vista interessanti.

Il fascino della bruttezza è stato indagato da più di un autore in letteratura, da Umberto Eco che ha fatto di Storia della bruttezza il contraltare del suo precedente libro Storia della bellezza fornendo con humour sagace esempi del brutto attraverso i secoli e arricchito il volume di meravigliose illustrazioni tali da far esclamare “Com’è bella la bruttezza!”. L’orrido spesso attrae, come il Frankenstein di Mary Shelley o la Fosca di Iginio Ugo Tarchetti. È poi inevitabile che una persona considerata brutta affini altre doti che le permettono di conquistare la sua parte di mondo, pensiamo al Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. E torniamo così a Rebecca eroina che trova il suo riscatto nella musica, che le regala una voce, le permette di essere ascoltata, le dona un’esistenza oltre il visibile. La musica tocca le corde profonde dell’anima che prescindono da ogni apparenza, stimola un senso, l’udito, meno velleitario e fuggevole della vista. Nella musica Rebecca trova il coraggio di vivere una vita da “diversamente bella”, ricucendo nota dopo nota la voragine di silenzio che è stata la sua infanzia.

Letture consigliate:

Umberto Eco, Storia della bruttezza, Bompiani, Milano, 2007 pp.456

Mary Shelley, Frankenstein, Penguin Classics, London, 1985 pp.289

Igino Ugo Tarchetti, Fosca, Mondadori Oscar Classici, Milano, 2002 pp.192

Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac, Feltrinelli, Milano, 2009 pp.285

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Il Bel Paese: cruciale comunicare l’arte

 

L’Italia, ovvero il Bel Paese, una nazione ricca di tradizioni culturali e artistiche. Terra di Michelangelo, di Giotto, di Brunelleschi. Uno Stato che è un museo a cielo aperto, sul cui territorio si sono alternate popolazioni con culture e tradizioni differenti, uomini che hanno profondamente modificato e arricchito il paesaggio, lasciando una testimonianza della loro esistenza. Una nazione da scoprire, in cui anche il più piccolo paese può celare un tesoro di ineguagliabile valore.

Pompei, scorcio di un interno

Pompei, scorcio di un interno

Il governo italiano ha tagliato i finanziamenti alla cultura per il 2011 e molti articoli di giornale si sono soffermati sulle problematiche di sopravvivenza di alcuni complessi museali, sui crolli verificatesi a Pompei e sulle precarie condizioni di siti archeologici che necessitano al più presto di opere di restauro/recupero. Non si vuole certo giudicare qui l’operato dell’attuale Ministro dell’Economia che, come tutti i suoi predecessori, ha il difficile compito di smistare la risorse dello Stato tra i differenti ministeri, cercando, il più possibile, di mantenere un pareggio di bilancio tra entrate e uscite annuali. Un ruolo certo reso ancora più complicato dall’eccezionale portata del debito pubblico italiano, che, oggi, è pari al 116% del Pil(www.dt.tesoro.it/it/debito_pubblico/_link_rapidi/debito_pubblico.html) . D’altra parte, non si può dimenticare che la peculiare situazione italiana si inserisce in un contesto europeo e mondiale di profonda crisi economica: cassa integrazione, licenziamenti, disoccupazione giovanile sono ormai diventate parole chiave non solo del dibattito pubblico, ma anche della vita quotidiana privata di tanti cittadini. Proprio in questa cornice così complessa bisogna contestualizzare i tagli alla cultura: al fine di elaborare un’opinione più completa, però, questi elementi non sono sufficienti; è, infatti, utile considerare altre tessere del mosaico complessivo, come il valore del nostro patrimonio storico-artistico.

L’arte e i siti archeologici hanno un valore intrinseco immenso: sono testimonianza di un passato più o meno lontano, opere del genio creativo di personalità eccezionali, ma non è tutto. Rispondono a bisogni umani psichici profondi, suscitano sentimenti di stupore, con la loro bellezza sanno distrarre la mente dalle preoccupazioni quotidiane, svolgono una funzione educativa e didattica e, se questo non fosse ancora sufficiente, hanno un valore economico. Ebbene sì, il patrimonio storico artistico ha un valore monetario, diretto e indiretto. Gli introiti diretti fanno certamente riferimento ai biglietti dei visitatori paganti che, però, è bene dirlo, non sempre sono sufficienti a coprire tutte le spese di gestione dei complessi museali e/o archeologici; il finanziamento esterno, pubblico o privato, si rende, quindi, necessario. Il fatto che il patrimonio culturale non sia sempre ‘autosufficiente’ non deve far pensare che le sovvenzioni statali siano una gentile concessione a fondo perso. I visitatori dei musei, dei complessi archeologici, delle città d’arte non spendono esclusivamente i soldi del biglietto d’ingresso, ma alimentano a ben vedere il circuito del turismo di alcune aree più o meno vaste, garantendo la sopravvivenza di alberghi e altri esercizi commerciali. I centri più artisticamente e culturalmente ricchi sono anche quelli che hanno maggiori chance di attrarre più studenti e più imprese in un quello che può essere visto come un circolo virtuoso. Gli studenti universitari, infatti, scelgono la sede universitaria, in base alla qualità dell’ateneo, ma anche facendo riferimento alla vivibilità e alle risorse offerte dal territorio. Le imprese considerano positivamente la presenza di lavoratori altamente qualificati e i loro manager hanno l’ambizione di vivere in una città all’altezza delle loro aspettative e standard di vita. Appare, quindi, importante continuare a investire, a livello pubblico, nella cultura sia per il suo inestimabile valore intrinseco sia per il suo ritorno economico.

Firenze, Palazzo Vecchio sullo sfondo delle due ali della Galleria degli Uffizi

Firenze, torre di Palazzo Vecchio incorniciata dalle due ali della Galleria degli Uffizi

Non dimentichiamo, inoltre, che il bilancio di alcuni siti è ampiamente in attivo, basti pensare al Colosseo che è recentemente salito agli onori delle cronache in virtù della sponsorizzazione di Della Valle per operarne un complessivo restauro. Questo recente avvenimento consente di tirare alcune somme: in un contesto in cui lo Stato e gli enti pubblici sovvenzionano sempre meno la cultura e l’arte, il ruolo svolto dalle sovvenzioni e dalle sponsorizzazioni private acquisisce un maggior peso e, con esso, diventano sempre più cruciali la comunicazione e l’informazione sull’attuale condizione in cui versano i beni storico-artistici. ‘Far conoscere’ è il presupposto essenziale per suscitare l’interessamento di qualche privato, che, finanziando gli interventi di restauro, può così aspirare ad ottenere in cambio un buon ritorno d’immagine, grazie al risalto mediale del suo finanziamento.

Probabilmente, alcuni storceranno il naso, ma, si sa, oggi come oggi, nessuno si impegna senza avere un ritorno: cerchiamo almeno di sfruttare questa logica per tutelare il magnifico patrimonio che i secoli trascorsi ci hanno lasciato in gestione.

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Quando il jazz si scopre donna

Jazz is a woman, il jazz raccontato da trentanove voci femminili della scena musicale contemporanea. Questo il nuovo libro di Guido Michelone, professore di Storia della Musica Afroamericana presso il Master in Comunicazione musicale dell’Università Cattolica di Milano. Autore particolarmente prolifico, Michelone ha alle sue spalle una ricchissima produzione letteraria tra cui spiccano, solo per elencarne alcuni, Senti un pop (Marinotti, 2001), Breve storia della musica jazz (Zedde, 2009), I Simpson. Una famiglia dalla A alla Z (Bompiani, 2009), Musical, jazz e cinema. Breve introduzione alla storia dei rapporti musicali/cinema (EDUCatt, 2009), Speak jazzmen. 55 interviews with jazz musicians (EDUCatt, 2010).

Come gli ultimi due libri citati, anche Jazz is a woman è pubblicato da UNICatt, la casa editrice dell’Università cattolica di Milano, si tratta di una raccolta di interviste alle signore del jazz: dalla flautista americana Jamie Baum, alla pianista e compositrice giapponese Akiko Pavolka, per passare alle più note Puppini Sisters, Cheryl Bentyne (Manatthan Transfer) e alla bassista Esperanza Spalding, e ancora alle italiane Patrizia Scascitelli, pianista, Ada Rovatti, sassofonista, Cristina Zavalloni, cantante. Idealmente questo testo si affianca e va a completare l’altra raccolta di interviste di Michelone, Speak jazzmen, dove a essere interpellati sono invece protagonisti maschili del jazz.

 La novità del testo è evidente fin dal titolo: il jazz è una donna. Quest’affermazione sembra ribaltare il ruolo di primo piano che l’immaginario comune ha sempre attribuito agli uomini del jazz, figure ormai leggendarie come Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Miles Davis fino ad arrivare ai jazzisti contemporanei. Eppure, a pensarci bene, la donna è spesso la vera “frontmen” dei gruppi jazz: rivestendo nella maggior parte dei casi il ruolo di cantante, la donna si scopre essere colei che occupa la posizione di prima linea durante lo spettacolo. La barriera di genere è dunque sfondata?

In parte sì e in parte no, nel senso che, come dice lei, è vero che sin dagli inizi del jazz o addirittura prima, con le cantanti di blues e di gospel, la donna è protagonista e anche leader di un ensemble musicale e del progetto artistico. E già negli anni Venti appare qualche figura, come la pianista Lil Hardin – che sposerà Louis Armstrong e lo spronerà a rinnovare l’hot jazz – che si discosta dal cliché della cantante jazz un po’ femme fatale. Ma restano casi isolati, come, altro fulgido esempio, Mary Lou Williams, pianista, compositrice, band leader, che attraversa la storia del jazz dagli anni Trenta ai Settanta. Ma il ruolo della donna anche oggi continua a essere visto, più o meno simbolicamente, nell’immaginario popolare, come quello della bella ragazza che canta e seduce, nonostante aumenti il numero delle musiciste che suonano uno strumento o addirittura dirigono un orchestra (come Maria Schneider e Christine Jensen) e che affiancano gli uomini in tutto e per tutto.

Questo libro ha la particolarità di essere scritto interamente in lingua inglese. Si intravede forse il tentativo di superare, oltre alla barriera di genere, anche un ostacolo evidentemente linguistico e perfino etnico. Le donne intervistate infatti provengono dalle più diverse realtà musicali americane, europee, mondiali. A unirle sono da un lato la musica e dall’altro la lingua: è corretto parlare di jazz americano di lingua inglese, oppure ci sono altre realtà musicali non anglofone?

Il jazz è ormai un linguaggio universale esteso davvero in tutto il mondo. E in molte culture viene integrato perfettamente alle realtà locali, fino a produrne qualcosa di assolutamente nuovo e originario. Benché il jazz continui ad avere quale epicentro gli Stati Uniti (soprattutto le grandi città come New York, Chicago e Los Angeles), in altri Paesi da venti-trent’anni esiste un jazz autoctono che non ha nulla da invidiare a quello nordamericano: penso alla Francia anzitutto (storicamente la prima nazione jazzistica dopo gli USA), poi alla Scandinavia e al Nord Europa in genere, ma anche all’Italia, alla Spagna, i Balcani, al Giappone, al Brasile, all’Argentina, al Sudafrica. Per quanto riguarda invece il rapporto tra jazz e lingua inglese si può dire semplicemente che l’american english sia lo slang usato da tutti sia in termini specialistici sia quando si canta una canzone (anche se qualche cantante jazz americana spesso introduce nel proprio repertorio song in lingua francese, spagnola, portoghese, persino italiana).

Molto spesso viene chiesto alle intervistate chi siano i loro miti musicali, gli idoli o i maestri. Le risposte, seppure variabilmente, sembrano tutte vertere sull’età d’oro del jazz americano, e sui grandi nomi: Stan Getz, Miles Davis, Keith Jarrett, Pat Metheny. È questa la sola origine del jazz, oppure ciò che porta una donna a fare suo questo tipo di musica deriva piuttosto da esperienze e vicende personali?

Le mie interviste, salvo rare eccezioni, anche se l’età delle donne non si dovrebbe mai dire, sono tutte trentenni, quarantenni, massimo cinquantenni, dunque appartenenti a generazioni che hanno convissuto – come epoca e come immaginario – con il jazz della neomodernità dal cool al post-free e quindi i nomi che si fanno sono quelli. Poi, storicamente parlando, il canto jazz ha sempre guardato ai modelli stilistici degli strumentisti, nel senso che già Billie Holiday o Sarah Vaughan, sessant’anni fa, ammettevano che i loro ispiratori erano ad esempio il sax tenore di Lester Young invece di un’altra vocalist. Inoltre i musicisti che ha citato – Getz, Davis, Jarrett, Metheny – curiosamente hanno tutti un approccio delicato, raffinato, educato alla materia sonora e questo risponde al fatto che anche l’approccio delle donne al canto jazz per la maggior parte dei casi sia altrettanto dolce, tenue, romanticheggiante.

C’è un filo che lega tutte le interviste, ed è una domanda ricorrente “cos’è il jazz per te?”. Mi sembra di leggere qui una sorta di chiave di lettura per questo testo: la domanda infatti è tra le più semplici e al tempo stesso complesse, ogni intervistata risponde in modo profondamente differente e soggettivo, quasi come se l’essenza del jazz restasse un segreto sfuggente. Ma la donna, si sa, è essa stessa un essere sfuggente. È forse un paragone troppo azzardato?

Non saprei e sinceramente non amo molto le disquisizioni sull’identità femminile o su quella maschile. Credo che la differenza sessuale abbia conseguenze in molti aspetti della vita non solo quotidiana, anche in quella artistica, ma non è ancora scientificamente provata l’esistenza ad esempio di una scrittura femminile o di una musica femminile rispetto a quelle maschili. Se ipoteticamente si leggesse un romanzo cancellando in copertina l’autore o l’autrice, sarebbe difficile (io credo ‘impossibile’!) dire se sia scritto da un uomo o da una donna. E vale anche per la musica, per il jazz! Sfido chiunque ad ascoltare su disco ad esempio un brano della sassofonista tedesca Jutta Hipp o della trombonista afroamericana Melba Liston della fine degli anni Cinquanta e a dire se erano o meno donne: sono in tutto e per tutto musiche simili all’hard bop (movimento maschile) allora imperante! Ma vale anche per la musica di oggi: se facessi ascoltare l’ultimo CD della pianista romana Stefania Tallini…

Questa raccolta di interviste ha il pregio di tutte le raccolte corali di opinioni, quello cioè di mettere in luce come il jazz sia una specie di grande mare – così lo definiva Langston Hughes, poeta afroamericano, tra i primi a utilizzare il jazz in letteratura -, un universo unico e a suo modo oggettivo, tenuto insieme però da tante diverse componenti soggettive. Lo sguardo e la musica di ogni donna del jazz può essere considerato una piccola onda di questo grande e affascinante mare, cosa ne pensa?

Direi anche qualcosa in più,per usare la metafora hughesiana, alle donne appartiene una bella parte di questo mare. Nel canto jazz anzitutto il contributo delle donne non solo è superiore in quantità, ma offre dagli inizi del XX secolo a oggi continue innovazioni dovute proprio all’estro femminino, al fatto forse che la voce femminile (obiettivamente diversa da quella degli uomini) forse suona meglio accanto agli strumenti musicali che i maschi (ma non solo loro) suonano. Il problema, poi, è come sempre politico: ad esempio la comunità afroamericana statunitense, in particolare fra le classi meno abbienti, è maschilista e la questione si riflette nella società: ci sono forse donne nel rap e nell’hip-hoip? Sono una rarità. Dove invece il ruolo della dona non è più subalterno, come in Olanda, Svezia o Finlandia, lì il numero di jazziste, come quello di docenti universitarie, rock girl, amministratici delegate o vigilesse del fuoco è in deciso aumento…

Jazz is a woman – Guido Michelone – UNICatt editore

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Mario Monicelli: il male di vivere, il coraggio di morire.

”Si’, la vita e’ una bella avventura, tanto bella ma quella che io sto vivendo adesso pero’ e’ una avventura di merda, un’avventura schifosa che non vorrei vivere”


Sono le parole di Mario Monicelli, parole forti di un artista coraggioso. Fino alla fine. Quando arriva il momento di affrontare il mondo senz’aria che gli si stringe attorno, armato di quel coraggio disperato di chi capisce che così non si può vivere, che c’è qualcosa di immensamente sbagliato nel fisico provato come nella società di ieri e di oggi. La rinuncia, la resa, la passività. La debolezza di lasciar scorrere gli eventi. Un uomo non è tale se non ricerca con tutto se stesso la rivoluzione e il riscatto, ma il riscatto richiede sacrifici.

Lucido, a novantacinque anni si concede la libertà di decidere di non perdere la dignità di fronte alla malattia. Non vuole chinare il capo, sottomettersi al Tristo Mietitore incappucciato che lo attende affilando la sua falce giorno dopo giorno, così si toglie la vita buttandosi dalla finestra dell’ospedale in cui è ricoverato. Ormai ruscello strozzato, foglia riarsa, cavallo stramazzato, in una fredda sera d’inverno precipita sulla terra per potersi levare in cielo come falco e nuvola lontano dalla sofferenza, come un novello Pier della Vigna.

Una scelta coerente con il percorso dell’autore laico per eccellenza, colui che ritiene la speranza “una trappola inventata dai padroni” che non attende la ricompensa dell’aldilà ma preferisce essere fautore del proprio destino.

Nessuna parola d’addio da parte sua, mentre i commenti di amici e colleghi si susseguono numerosi nell’ora del cordoglio:

Aurelio De Laurentiis “Io che lo conoscevo profondamente e sapevo della sua grande dignità e del suo desiderio di essere sempre indipendente e autonomo, posso capire questo gesto”.

Michele Placido “Me la ricordo bene quell’esperienza, era una persona di grande energia e nessuno riusciva a stargli dietro. Cinque giorni fa lo avevo chiamato e mi aveva invitato a fare uno spettacolo per i terremotati de L’Aquila. Era così, anche molto generoso”

Giovanni Veronesi “una cosa va detta: non ho mai sentito nessuno che si suicida a novantacinque anni. Era davvero speciale. Sono davvero scombussolato, l’avevo sentito poco tempo fa e pur sapendo che era all’ospedale, non lo sono mai andato a trovare. Peccato”.

Una stella che ha lasciato la scia nel firmamento dei grandi e nel cuore dell’uomo comune, da lui ereditiamo più di una sessantina di perle cinematografiche e altrettante sceneggiature capaci di cogliere l’essenza dell’italianità attraverso le più importanti fasi storiche. Non sarebbe giusto passare sotto silenzio i successi di una vita spesa nell’arte.

Nato a Viareggio il 16 maggio del 1915, si laurea in Storia e filosofia a Pisa. Esordisce come regista nel 1934 quando insieme al cugino e amico Alberto Mondadori gira il cortometraggio Cuore rivelatore e il mediometraggio muto I Ragazzi della via Paal che vince il primo premio nella sezione “passo ridotto” della Mostra del Cinema di Venezia. Nel 1937, sotto lo pseudonimo di Michele Badiek, dirige il suo primo lungometraggio Pioggia d’estate. Giacomo Gentilomo lo vuole come aiuto regista nel film La granduchessa si diverte. Dal 1940 al 1943 è nella cavalleria dell’esercito italiano, ma riesce a scampare la carriera militare grazie all’amico Riccardo Freda. Conosce Stefano Vanzina con cui scrive Aquila Nera, per la regia di Freda, e sceneggia Come persi la guerra. Con Vanzina nasce un sodalizio sostenuto dal consenso di produttori e pubblico: insieme a Steno nel 1949 sceneggia Totò cerca casa, nel 1950 Vita da cani e E’arrivato il cavaliere, nel 1951 Totò e i re di Roma. Sempre nel 1951 Guardie e ladri vince il premio come miglior sceneggiatura a Cannes. Nel 1953 gira da solo Totò e Carolina, il film bloccato dalla censura esce solo nel 1955 e in seguito viene proibito. Il 1955 è anche l’anno della collaborazione con Sordi nel film Un eroe dei nostri tempi, con Padri e figli vince l’Orso d’argento nel cast Aldo Fabrizi e una giovanissima Gina Lollobrigida. L’anno dopo, 1956, esce I soliti ignoti che vince il Nastro d’Argento come miglior sceneggiatura. Con Anna Magnani e Totò gira Risate di Gioia e, grazie all’aiuto del produttore Carlo Ponti, Renzo e Lucia un episodio di Boccaccio ’70. Del 1963 è I compagni con Bernard Blier, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Annie Girardot e per la prima volta sugli schermi Raffaella Carrà.

Nel 1966 L’armata Brancaleone prodotto da uno scettico Mario Cecchi Gori si rivela uno straordinario successo. Nel 1968 Monica Vitti è la brillante protagonista di La ragazza con la pistola, l’anno successivo arriva Brancaleone alle crociate.

Gli anni ’70 vedono un successo dopo l’altro: Romanzo popolare con Ugo Tognazzi e l’esordiente Ornella Muti, Amici Miei dal cast stellare (Tognazzi, Noiret, Celi, Moschin), Un borghese piccolo piccolo con Sordi in versione drammatica, due episodi ne I nuovi mostri (First Aid e Autostop), Signori e signore buonanotte e Viaggio con Anita con Giancarlo Giannini e Goldie Hawn.

Camera d’albergo del 1981 non ha fortuna, anche se è preludio di quel genere televisivo oggi detto “reality”, seguono Il marchese del grillo (1981) premio alla regia al Festival di Berlino, Amici miei atto II (1982), Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984), Le due vite di Mattia Pascal (1985), Speriamo che sia femmina del 1986 vincitore di due David di Donatello, al film e alla regia e di un Nastro d’Argento, I picari (1988).

Suoi il film TV La moglie ingenua e il marito malato (1989), 12 registi per 12 città (1989), Il male oscuro (1990) tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Berto, Rossini! Rossini! (1991) anno in cui vince il Leone alla carriera, Parenti serpenti (1992) dell’esordiente sceneggiatore Carmine Amoroso, Cari fottutissimi amici (1994), Facciamo paradiso (1995), Panni Sporchi (1999), Come quando fuori piove (TV, 2000), e opere con un’impronta assolutamente politica e attuale come l’episodio di Un altro mondo è possibile (2001), Lettere dalla Palestina (2002), e nel 2003 Firenze il nostro domani.
Il 15 maggio 2006 festeggia il compleanno sul set di Rose del deserto.

Il suo sguardo cinico, ironico e disincantato rivive in ogni suo film e tutte le volte che gli schermi grandi e piccoli si riempiono di quella magica luce di realismo che è riuscito a creare. Padrone della sua vita, nel bene e nel male, non è caduto mai nella retorica e ha saputo imprimere un segno indelebile nella Storia d’Italia.

Addio Maestro

Grazie della tua onesta testimonianza.

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La rivolta sulla frequenza 105,600 MHz

Appropriazione indebita della frequenza 105,6 e programmazione radio infarcita di insulti razzisti, è questa la portata reale e tangibile dell’antenna installata il 17 dicembre scorso ad Alessano, pochi chilometri da Leuca, il capo del finis terrae italiano, il luogo di confine dove Ionio e Adriatico si incontrano. Si sta parlando della vicenda che da un mese esatto coinvolge Radio Padania Libera e il Salento.

Per sommi capi: quali sono i fatti, i protagonisti, le accuse e le risposte? 

Il 17 dicembre 2010 Radio Padania Libera, l’emittente che, com’è noto, dal 1997 è diffusa in tutto il Nord e si fa voce e cassa risonante per l’ideologia del partito leghista, inizia le trasmissioni nel Salento, in particolare in 30 comuni racchiusi nel territorio circostante al capo di Leuca: profondo sud, come si suol dire. Lo fa sfruttando il trasmettitore di Alessano e sovrapponendosi a Radio Nice del gruppo Mixer Media, l’emittente che prima di dicembre, in questa zona d’Italia, trasmetteva regolarmente sul canale 105,6.

I contenuti, appare chiaro da subito, sono decisamente anomali per una radio salentina: accento lombardo – al quale si può anche passare sopra con indifferenza -, ma soprattutto messaggi non certo frutto di analisi e progettazione accurata dello specifico linguaggio radiofonico adatto alle esigenze dei format, infarciti di volgarità, pregiudizi, insulti ai meridionali che si alimentano di quei pregiudizi e quegli stereotipi che della Lega sono da sempre  la linfa vitale. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa del 7 gennaio 2011 descrive in questi termini la programmazione: “melodie celtiche, proclami federalisti, invettive nordiste, rubriche come «Padania, sveglia!» e «Alpini padani»”. Toni e contenuti di tal calibro non sono certo passati indifferenti ai salentini – e crediamo di dover aggiungere, ragionevolmente, ai meridionali in generale -, tanto che la questione è ben presto esplosa e le proteste sono giunte fino ai vertici della politica locale e nazionale.

Prima di parlare di cosa sta succedendo e della serie di manifestazioni che a loro modo cercano di ribellarsi all’emittente, è fondamentale chiarire uno snodo della vicenda. Radio Padania Libera ha comprato la frequenza 105,6, ed è quindi libera di trasmettere in Salento? Non proprio.

La legge italiana prevede un trattamento particolare per due specifiche emittenti, Radio Padania e Radio Maria, entrambe riconosciute come “radio a carattere comunitario”, caratterizzate da “assenza di scopo di lucro” in virtù delle “particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose” di cui si fanno portavoce. Sfruttando questa menzione, l’articolo 74 della Finanziaria del 2001, votato dall’allora governo Berlusconi, con maggioranza di centro desta capeggiata dalla Lega, istituzionalizza il diritto di Radio Padania a occupare gratuitamente frequenze radio, previo un via libera dal ministero. Se non è un privilegio questo… Le comuni emittenti, infatti, pagano cifre piuttosto ingenti per l’acquisto delle frequenze. Ma non è tutto. Nel 2005 viene votata dal governo (ancora una volta di centrodestra, con una buona parte della Lega) la legge che prevede un finanziamento annuo  riservato a Radio Padania e Radio Maria. Questo mentre le altre radio ricevono la propria quota spartita da un totale proveniente da finanziamenti pubblici. Solo invidia? No, perché un incredibile “gap” di questa normativa fa sì che le frequenze acquisite gratuitamente possano essere cedute, o meglio vendute, alle radio commerciali. La compravendita delle frequenze pare, per la Lega, essere soltanto una falsa diceria, ma il Pd ha già avuto modo di confermare l’usanza dei passaggi a pagamento tramite una serie di documenti che ne attesterebbero l’esistenza. Di frode in frode, per motivi da chiarire, la radio leghista ha fagocitato il canale 105,6 storicamente occupato dall’emittente salentina Radiorama.

Una faccenda, insomma, tutta all’italiana, così tipica di quel meridionalismo e atteggiamento da “Roma ladrona” che Radio Padania attacca ferocemente. È davvero l’assurdo. Come è altrettanto assurdo il fatto che una radio che percepisce finanziamenti dallo Stato per il suo carattere comunitario possa trasmettere senza freni quelle che il sindaco di Alessano Gigi Nicolardi, tempestato di telefonate e proteste dei suoi cittadini indignati per i contenuti della radio, racconta come “trasmissioni infarcite di veri e propri attacchi ai meridionali che a loro dire sono i veri responsabili del disastro Italia. I meridionali sono ladri i padani sono onesti, i loro soldi sono puliti [N.d.R. Sottolineiamo la palese contraddizione con quanto spiegato sopra] i nostri sono sporchi, la loro sanità è efficiente la nostra è sprecona, loro pagano le tasse noi le evadiamo, e così via per tutto il giorno, in un crescendo di epiteti e propaganda antimeridionalista” (Salvaggiulo, La Stampa, 7/1/2011).

Tornando all’occupazione indebita del canale radiofonico, le reazioni in Salento sono state molteplici. Il sindaco Nicolardi si è rivolto ai parlamentari, in modo particolare agli onorevoli Teresa Bellanova e Lorenzo Ria. È sceso in piazza anche il Movimento giovanile Regione Salento affiancato dalla popolazione, dai politici di ogni schieramento e dalle associazioni locali: domenica mattina è stata organizzata una manifestazione sotto all’antenna trasmittente, ad Alessano. Il coordinatore del movimento, Claudio Sturdà, forte dello slogan “no al razzismo perché il Salento è terra di accoglienza, no all’illegalità e a chi occupa abusivamente le frequenze”, ha spiegato al Corriere del mezzogiorno.it: “il Salento è terra di cultura e di accoglienza e non può assolutamente sopportare l’ascolto di una emittente xenofoba che definisce i meridionali: pidocchiosi e mafiosi”.

La protesta è attiva anche da parte dell’editore salentino Paolo Pagliaro, a capo delle radio e tv del gruppo Mixer Media (che include Rama, Manbassa, Nice, Jetradio, Salento, Telerama e Telerama 1), il quale ha deciso di trasmettere, contro la deriva xenofoba di Radio Padania, l’inno di Mameli a reti unificate e su tutte le frequenze del gruppo, ogni giorno alle ore 16.00 a partire dall’8 gennaio.

Il Salento rivendica la necessaria legalità nella vicenda dell’occupazione abusiva delle frequenze, per questo motivo, oltre all’appello ai parlamentari, Pagliaro si è dichiarato pronto a denunciare la situazione al Tar: “Ecco a voi i leghisti violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori, che non (ri) conoscono la Costituzione Italiana e che la violano con disprezzo. Violenti perché hanno ottenuto grazie alla gestione del potere l’opportunità di un sopruso-abuso” (Corriere salentino.it). È già stata inviata una diffida al Ministero delle Comunicazioni, saranno dunque eseguiti i relativi accertamenti ed è previsto per questa settimana il regolare ricorso al Tar. A difesa di Mixer Media l’avvocato Gianluigi Pellegrino, che farà leva, nella sua denuncia, sull’incostituzionalità delle norme che permettono a una radio dalla fittizia utilità sociale di abusare dei propri privilegi per scopi opposti a quelli previsti dalla legge. “Nessuno pensa di dover impedire a Radio Padania di fare o dire ciò che pensa anche qui dalle nostre parti” – ha voluto specificare sulla Gazzetta del Mezzogiorno.it il deputato Ugo Lisi del Partito delle Libertà – “tuttavia credo che la libera espressione di questa emittente non possa avvenire a scapito delle emittenti salentine, specie Radiorama che racconta questa terra con le sue storie e le sue virtù”.

Mentre a livello nazionale la vicenda è poco seguita e l’emittente padana non sembra preoccuparsi della rivolta in corso, Il caso per il momento è arrivato in Consiglio regionale. Così ne parla il vicepresidente della giunta Loredana Capone su Nuovo Quotidiano di Puglia.it: “da un lato le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, dall’altro norme finalizzate a tutelare la diffusione del verbo politico di un partito che parla contro la capitale ”Roma ladrona” e contro il Sud. Radio Padania parla senza avere il pudore di ricordare che cresce con le tasse di tutti gli Italiani, prendendo 500mila euro l’anno di contributo, e lo fa utilizzando una norma, fatta ad hoc, che sostanzialmente rischia di legittimare l’appropriazione indebita di frequenze”. La ricorrenza delle celebrazioni per i 150 anni dell’Italia unita stride con questa situazione, lo sottolinea la Capone: “occorre fare riflessioni serie per rinsaldare l’Unità del Paese. Ancora oggi ci sono tanti nodi da sciogliere, pregiudizi spesso strumentali e ancora più spesso frutto di ignoranza pervadono i ragionamenti di tanti. Perciò affronteremo la questione in Consiglio regionale, augurandoci che in queste emittenti, in particolare, sia dato il giusto rilievo ai nostri giovani che vincono premi nazionali per l’innovazione, alle nostre imprese che affrontano sacrifici sempre più grandi, alle nostre università”. Al di là del comprensibile riferimento alla situazione salentina, si scorge nella sua riflessione anche la preoccupazione per il prevalere di opinioni e vere e proprie ideologie sempre più spesso costruite su stereotipi fantoccio, che impediscono di analizzare criticamente la realtà e agire in direzione di un suo miglioramento.

Comunque vada a finire questa storia (noi ci auguriamo che venga riconosciuta l’illegalità dell’insediamento leghista sulle frequenze salentine), la radio – da sempre il medium libero per eccellenza – ne uscirà ferita e offesa per un tentativo di sopruso violento e prepotente. A danno dei salentini e di tutti i meridionali, ma ancora di più, democraticamente parlando, a danno di una regolamentazione che gestisce la libertà di informazione nel Paese. Sono sufficienti potere politico ed economico per levare voce a un’emittente e prevaricare con quella che, a discapito della legge, è tutto fuori che una radio con finalità comunitarie. Comunitarie in senso lato, cioè inerenti all’interesse dell’Italia intera, non di una comunità ristretta e selezionata che ruota intorno a un partito e che, peraltro, fa propaganda illegalmente.

Il Cetto La Qualunque di Antonio Albanese sembra uscire dai confini del suo “ideale” meridione, e rivelarsi a suo agio in tutta Italia. Perché è questo il risultato finale: diffusione del gioco sporco ovunque, forte di pregiudizi e capri espiatori, laddove né la politica né tantomeno l’informazione sono più baluardi della democrazia. E chiudiamo a tal proposito con il commento che il presidente della Camera Fini ha fatto a Che tempo che fa domenica 16 gennaio: “La legalità è il presupposto di ogni democrazia. […] C’è il rischio di un discredito complessivo di tutte le istituzioni […] non è un mistero che la credibilità complessiva delle istituzioni sta calando. […] Non è un problema delle opposizioni, del governo, della destra, della sinistra, è un problema di tutta la politica”.

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Sul “valore” di ogni disciplina

 

L’uomo, per analizzare e comprendere più profondamente la realtà di fronte ai suoi occhi, ha da sempre cercato di suddividerla e classificarla. La stessa tendenza ha caratterizzato i diversi domini di conoscenza e le diverse discipline, da quelle umanistiche a quelle scientifiche; in un tale quadro, non stupisce in alcun modo che la storia non abbia fatto eccezione.

Gli studenti seduti nei loro banchi hanno, spesso, posto una particolare domanda al loro professore: “ma a cosa serve studiare la storia?”. Una domanda, a volte, nata dalla sincera volontà di capire l’utilità di una tale materia, altre volte, ispirata dalla non tanto velata volontà di mettere in difficoltà il mal capitato docente. Alcuni hanno risposto che conoscere la propria storia aiuta a non commettere più gli errori del passato; senza alcun dubbio, una tesi affascinante, che, però, viene smentita dalla continua tendenza dell’uomo a dimenticare, a pensare “questa volta sarà diverso”, a commettere iterativamente errori quantomeno simili. Altri possono aver sottolineato il valore identitario di quello che ci ha preceduto, ovvero, noi siamo ciò che siamo in virtù di ciò che è stato prima. Forse, la storia non avrà la stessa utilità pratica della matematica, della fisica e della chimica, ma senza questa non sapremmo nemmeno dire come siamo arrivati alle scoperte scientifiche che hanno rivoluzionato le società nel corso dei millenni e dei secoli. Anche un singolo individuo senza memoria del suo vissuto è come un bambino che si muove malcerto e procede per tentativi, senza la guida di un adulto.

La storia ci aiuta a comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. La storia, prendendo in considerazione gli sviluppi umani, culturali, sociali, economici, giuridici, scientifici, artistici religiosi di una società ci offre gli elementi essenziali per spiegare, senza ricorrere a categorie quali “fato” e “destino”, come mai si sia verificato un determinato evento.Il senso di queste parole può essere veramente colto, applicando il ragionamento a un evento concreto; tra tutti quelli che si potrebbero scegliere, pensiamo sia particolarmente interessante la fine della divisione del mondo in due blocchi. Non si tratta di un singolo evento, bensì di un complesso di micro e macro eventi che hanno contribuito a modificare la visione del mondo dominante per poco meno di cinquant’anni; uno spartiacque che, proprio perché relativamente recente, appartiene in modo più o meno marcato all’esperienza personale e/o mediata di gran parte di noi. Non tutti, però, hanno vissuto questi avvenimenti con la stessa consapevolezza della loro portata, non tutti hanno avuto accesso alla stessa quantità/qualità di informazioni; sembra, quindi, interessante fare riferimento a un personaggio che, per formazione e per ruolo, può essere ritenuto un “testimone privilegiato”. Nel suo libro, “L’era della turbolenza”, Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve dal 1987 al 2006, racconta il suo punto di vista su tutti questi eventi, con uno stile semplice, comprensibile e, a tratti, accattivante. Greenspan, nell’ottobre del 1989, viene chiamato a spiegare la finanza capitalista a una platea di economisti e banchieri sovietici e rimane stupito della profonda conoscenza dimostrata da alcuni dei presenti. Poco tempo dopo, il 9 novembre 1989, crolla il muro di Berlino. Come ricorda Greenspan, “uno dei dibattiti più importanti del XX secolo riguardava il controllo governativo desiderabile per il bene collettivo” (GREENSPAN, p.144). Si confrontavano, quindi, sia due diverse visioni del mondo, sia due diverse modelli di organizzazione economica: da una parte, il libero mercato e, dall’altra, la pianificazione centrale.

La Germania, fino al 1945, era stata una nazione unita, che condivideva una cultura, una lingua, una storia e un complesso di valori. A partire da questa base comune, si era, poi, innestata una variabile differente: il sistema politico ed economico. Sembra, quindi, ragionevole ritenere che la diversità tra la Germania Est e la Germania Ovest sia, in gran parte, imputabile al differente cammino imboccato al termine del secondo conflitto mondiale. Questo non deve, però, far cadere in una sorta riduzionismo: il modello di organizzazione economica non è una realtà a se stante che si impone sulle altre, bensì una struttura che, per il suo funzionamento, si basa su una serie di precondizioni culturali e sociali. Ciò emerge in modo evidente, se l’attenzione si sposta sul difficile passaggio dalla pianificazione al capitalismo da parte dell’URSS. Mentre, nel caso della Polonia e della Cecoslovacchia, i leader politici avevano potuto contare sull’appoggio popolare, i cittadini sovietici, in passato orgogliosi del ruolo di superpotenza della loro nazione, vivevano questi avvenimenti come un’umiliazione. A questa difficoltà, se ne aggiungono altre più concrete, come ricorda Greenspan: “[…] Erano passati troppi anni dal 1917, e quasi nessuno ricordava in prima persona la proprietà privata o aveva esperienza imprenditoriale. Non esistevano ragionieri, revisori, analisti o avvocati specializzati in diritto commerciale, nemmeno fra i pensionati. Nell’Europa dell’Est, dove il comunismo aveva regnato per quarant’anni anziché ottanta, si era potuto ristabilire un libero mercato; in Unione Sovietica lo si doveva resuscitare dall’oltretomba” (GREENSPAN, p.152).

Il crollo dell’URSS e il passaggio obbligato a un’economia di mercato è un’occasione per riflettere e per riconoscere “i fondamenti istituzionali necessari ai liberi mercati” (GREENSPAN, p.154). La trasformazione è stata sì necessaria, ma non certo automatica; le ragioni delle tante difficoltà incontrate lungo questo cammino sono legate alla “vasta rete di sostegno culturale e infrastrutturale, evolutasi per generazioni [nei paesi occidentali, comprendente]: leggi, consuetudini, norme deontologiche e professionali” (GREENSPAN, p.154).

Tutto ciò, si spera, dovrebbe aiutare a non sottovalutare mai l’importanza di determinati fattori, a non credere che alcune discipline siano inutili, solo perché prive di una immediata applicabilità tecnico-produttiva: esse costituiscono una precondizione, un retroterra necessario al funzionamento di determinate strutture e infrastrutture chiave all’interno della nostra società contemporanea. Tutte le discipline hanno un loro valore e una loro valenza pratica, anche se, in alcuni casi, è necessario avere un occhio allenato e attento che sappia svolgere un’analisi critica e non si blocchi alla pura esteriorità delle cose. Fortunatamente, ci sono ancora cammini formativi che si propongono questo fondamentale obiettivo.

(ALAN GREENSPAN, L’era della turbolenza, Sperling & Kupfer, 2007; traduzione di Dade Fasic, Andrea Mazza, Cristina Volpi, The Age of Turbolence, 2007)

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